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Sant’Antonino APS: la verità e il senso della vita nella cura delle relazioni

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di Vanni Sgaravatti

La verità non è un’entità predeterminata da trovare, ma il risultato di un atto dinamico, da intendersi come continua ricerca del significato, condotta insieme all’altro della relazione, in percorsi condivisi, con il tentativo di uscire dalle nostre “grotte di Platone”.

Offrendo in questo modo la testimonianza di questa ricerca comune, ma al contempo personale e della coerente corrispondenza tra la risposta continuamente aggiustata e il significato delle “cose” indagate.

Una ricerca che continua per approssimazioni successive verso un sempre maggior grado di verità, senza avere l’illusione di arrivare ad un punto finale.

Infatti, la verità assoluta, quella peraltro inconoscibile, non è la verità convenzionale, parziale, come quella giuridica, quella che incanala le risposte secondo domande formulate secondo, appunto, una determinata convenzione.

Occorre non abbandonarsi a quello che i tecnici filosofi chiamano “il prospettivismo post nietzschiano”, in cui la relazione con il reale dipende da interessi e dalla posizione personale, che, peraltro, è sempre condizionata dai media, che fungono da filtri.

Trascurare l’importanza del filtro nel nostro rapporto con la realtà significa abbandonarci ai desideri indotti da questo, senza esercitare un pensiero critico su di essi. Vogliamo uscire da questa dipendenza?

È faticoso: occorre prendere distanza da noi stessi e dai nostri desideri, per chiederci, quanto questi sono veramente “nostri”.

Ma perché fare questa fatica?

Forse per ritrovare un senso e rimediare ad uno stato di angoscia esistenziale, ancorché spesso inconscio?

Ma per avere il gusto di farlo occorre riuscire ad essere consapevoli del rapporto tra questa dipendenza e il disagio di fondo, senza necessariamente attribuirlo solo alle cause immediate e spesso di comodo.

Per raggiungere questa consapevolezza, occorre, quindi, cominciare a renderci conto che la visione della realtà non dipende da noi, ma da intermediari tecnologici o artificiali, tra cui, soprattutto, la burocrazia, il principale filtro che regola il nostro rapporto con la realtà.

Quando qualcuno scambia la regola burocratica per la realtà commette un “delitto” contro la verità, non solo perché non gli permette di raccordare la propria azione alla relazione con un altro umano, ma solo con il soggetto che lo rappresenta, ma anche perché, così facendo, si allena a scambiare la verità per uno schermo imposto, spesso di comodo. Anche se inconsapevolmente.

L’ambito sociosanitario assistenziale, mettendo al centro la relazione da curare, apre l’occasione più unica che rara di essere reciprocamente aiutati nel vedere come il filtro dei media (burocrazia compresa), omologando entità diverse come l’umano e l’artificiale, distorce la stessa relazione.

Per fare questo occorrerebbe trovare il tempo e lo spazio, avvertendolo come fondamentale e non come una “perdita”, di pensare insieme sul nostro pensato, in particolare gli assistenti con cui si vive una prassi comune, per far emergere la veridicità delle nostre esistenze dall’intreccio della burocrazia che ci avvolge.

Una burocrazia che, classificando e portando ad incanalare le risposte secondo regole procedurali, scritte o immaginate che siano, induce a vivere questa modalità come necessaria per essere e sentirsi efficienti.

Nell’ambito sociosanitario assistenziale, i volontari, in teoria, potrebbero valorizzare qualche vincolo e paura in meno rispetto ai lavoratori, per ragionare sui significati (filosofia), ma purtroppo la modalità con cui siamo stati abituati a rapportarci con il reale per tanti anni nel lavoro, fa ricadere i volontari nelle stesse modalità, facendo vivere loro l’ansia dell’inadeguatezza al ruolo e la necessità degli strumenti per dare le risposte “concrete” ad un altro.

I credenti hanno la fortuna di colmare questo buco tra efficienza e senso esistenziale, delegando questa ricerca di senso alla predica e alla relazione con il prete, dando poi un significato di adeguamento alle prescrizioni evangeliche, con eventuale perdono per comportamenti e pensieri difformi.

Trascurando, però, il fatto che anche il Vangelo può essere testimonianza di un processo di verità rilevata, inteso come un percorso dinamico per la ricerca della verità.

Ed è questo il significato di verità come atto dinamico, che richiama la nostra responsabilità di volere cercarla nella relazione, per dare un senso alla condivisione umana delle esperienze e non tanto per un fine esterno, come quello, peraltro nobile, di essere più efficace nel raggiungere un obiettivo predeterminato, come dare risposte che a noi appaiono “concrete” a bisogni “concreti”.

Naturalmente, le cosiddette risposte concrete sono necessarie e possono sempre essere migliorate, così come un falegname pulisce i propri strumenti di lavoro, ma l’ordine, la pulizia, e il buon funzionamento degli strumenti non sono il fine ultimo della relazione.

Possiamo essere tutti testimoni della ricerca della verità, che è una componente intrinseca allo stesso concetto di verità, dove testimone è colui che, individuata una verità (sempre contingente), trovata nella dinamica della relazione, la percepisce come qualcosa che si impone a lui e che implica, per renderla davvero vera, una risposta emotiva e talvolta effettiva, assumendo il rischio di scegliere in prima persona.

Anche quando ci relazioniamo con l’artificiale, siamo noi a testimoniare la ricerca della verità ed a certificarla, sapendo però che in questo rapporto abbiamo bisogno dell’elaborazione di un’etica, perché non abbiamo tempo per attendere un suo autonomo sviluppo o disvelamento, in sintonia con i tempi dell’evoluzione culturale (come è stato in passato) e tanto meno in sintonia con l’evoluzione biologica. Ammesso che, da genuini antropocentrici, ci teniamo ad una realtà adatta alle specifiche dell’umano.

Un’etica che non va intesa solo come insieme di prescrizioni morali, che definiscono etico il risultato di un comportamento, ma come una modalità moralmente condivisa di processo relazionale.

L’ascolto dell’altro è una delle prime componenti della ricerca dell’autenticità in una relazione, ma questo significa accettare di farsi attraversare dalla verità dell’altro, senza poter controllare e predeterminare l’esito, disponibili a modificare le proprie credenze.

È decisamente più comodo seguire una procedura e dei paletti immaginati nella propria testa indipendentemente dalla realtà dell’altro, ma allora non lamentiamoci del dolore burocratico come derivasse da una ferita imposta da un altro, un soggetto straniero.

Come in quei film di fantascienza, potremmo scoprire che il nemico burocratico risponde al capo della Spectre che accarezza il gatto bianco, e ha il nostro volto.

L’Associazione gli incontri di S. Antonino, per combattere il rischio del burn out e del vuoto esistenziale di molti operatori socio sanitari (e non solo) ha intenzione di approfondire questi temi dentro di noi e fuori di noi, in ruoli e sceneggiature che costituiranno una performance originale: “Il dolore burocratico a teatro”.

 

 

(3 luglio 2025)

©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 





 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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