di Lonsito De Toledo
Quando le immagini arrivano sugli schermi, non mostrano mai il cuore di ciò che accade. Quel cuore è la marea di persone che cammina insieme, con passi decisi ma pacifici, con cartelli che raccontano speranze e rabbie controllate, con bandiere che si muovono al ritmo di un consenso silenzioso. Eppure, spesso, il telegiornale sceglie un altro cuore: vetri rotti, corpi che si urtano, sirene che urlano e lacrimogeni che appannano le piazze. Così lo spettatore viene immerso subito in un racconto di pericolo, tensione e disordine, mentre la realtà sostanziale — la moltitudine che manifesta senza violenza — resta sullo sfondo, se non scompare del tutto.
Il problema non è soltanto giornalistico; è culturale. Trasformare i pochi minuti di caos in apertura significa modellare la percezione collettiva: la piazza diventa sinonimo di rischio, la protesta un gesto sospetto, la cittadinanza attiva un elemento potenzialmente destabilizzante. Ogni volta che questo schema si ripete, si costruisce lentamente un immaginario pubblico in cui il dissenso organizzato viene percepito come minaccia e non come espressione legittima di opinioni. La verità storica — che migliaia di persone hanno partecipato con determinazione e pacatezza — diventa un dettaglio secondario, come se contasse meno dei vetri infranti o delle cariche poliziesche.
La logica della spettacolarizzazione ha radici profonde. Il linguaggio televisivo è attratto da ciò che è drammatico, rumoroso, visivamente immediato. La massa pacifica, per quanto numerosa, non genera picchi di attenzione; non fa ascolti. E così, tra un fotogramma e l’altro, si selezionano immagini che catturano il sensazionalismo, non la sostanza. Il risultato è devastante: la partecipazione civile viene marginalizzata, trasformata in rumore di fondo, mentre pochi momenti di tensione dominano la narrazione, deformando il senso stesso dell’evento.
Questa deformazione ha conseguenze concrete. Chi vorrebbe manifestare può esitare, spaventato dall’associazione automatica tra piazza e violenza; chi osserva da casa finisce per interiorizzare l’idea che scendere in strada sia inutile o pericoloso. Così, il telegiornale non si limita a raccontare i fatti: plasma opinioni, delegittima la protesta, svuota il gesto democratico del suo significato. La piazza, luogo di incontro e di azione collettiva, diventa metafora di caos, e la democrazia stessa rischia di ridursi a rituale sterile, confinato tra urne e dichiarazioni ufficiali.
La soluzione sarebbe semplice e radicalmente diversa: iniziare mostrando ciò che conta davvero. La massa compatta, i volti, le voci che si uniscono, l’energia collettiva. Solo dopo, con proporzione e chiarezza, raccontare gli episodi di violenza come eccezioni, deviazioni marginali che non oscurano il senso complessivo della giornata. Sarebbe un racconto fedele, equilibrato e onesto, capace di restituire dignità alla partecipazione dei cittadini e di far percepire la piazza come spazio legittimo di democrazia.
Finché la priorità rimarrà il clangore dello scontro piuttosto che il respiro della moltitudine pacifica, finché la scelta editoriale privilegerà la spettacolarità anziché la proporzione, resteremo prigionieri di una narrazione distorta, che alimenta paura, sfiducia e cinismo. Una narrazione che tradisce la verità dei fatti e, peggio, mina la fiducia nella possibilità di cambiare le cose attraverso la partecipazione collettiva.
(23 settembre 2025)
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