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Il senso della vita tra cambiamenti e fallimenti collettivi

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di Vanni Sgaravatti

La morte di Dio, come ne parla Nietzsche, rappresenta un passaggio fondamentale tra il medioevo, in cui il concetto di Dio era la chiave interpretativa della vita socioculturale umana e la post-modernità caratterizzata da un continuo tentativo collettivo di riempire il vuoto lasciato da tale perdita. Un lutto che non è mai stato elaborato e che ha portato alla perdita di una fonte di senso e di ordinamento del reale.

Un senso della vita che permette di accettare la più terribile delle alienazioni tra l’umanità ed il resto della natura che, nell’atto cognitivo e consapevole di questa separazione, porta l’uomo ad un tentativo più o meno contrastato di sradicamento delle proprie radici biologiche.

L’identificazione dell’uomo in una parte del mondo naturale a cui appartiene apre le porte all’identificazione di ogni sé individuale rispetto alla specie di appartenenza e, quindi alla percezione della propria morte come fine di tutto, e, quindi, alla necessità di trovare una ragione che possa motivare la sopportazione del male di vivere.

Per trovare una soluzione occorre immaginare un terzo occhio, una terza parte rispetto alla natura non umana e all’umano che in esso li ricomprenda. Mancando questo terzo viene a mancare il trascendente che giustifica l’immanente, l’agire quotidiano.

Oggi, nella modernità, senza il divino e il sacro, troviamo riparo da questa perdita con due tipi di soluzioni, quello dello “struzzo che mette la testa sotto la sabbia” e quello che tenta in ogni modo di riempire quel vuoto lasciandosi scivolare nel flusso di sentimenti collettivi, come sonnambuli che talvolta si avvicinano senza saperlo all’orlo del dirupo.

Uno scivolamento dettato sempre meno dalla necessità di uno sviluppo del proprio daemon e sempre più dal caso, con la conseguenza di avvertire sempre più forte l’incertezza, a cui si continua a rispondere con la razionalità tecnica e la relativa illusione di mantenere il controllo.

Tra le soluzioni del primo tipo, quello dello struzzo, c’è l’egolatria, il consumo compulsivo; mentre tra quelle del secondo troviamo la manipolazione sociale ed il leaderismo.

E se questo è il motivo che ci spinge a credere nei leader, dovemmo essere cauti ed avvertiti riguardo al fattore di attrazione del leader: non certo per i ragionamenti sensati che fa, ma per il sentimento che ti provoca, quando il leader di turno ti fa sentire parte di un tutto.

Nella ricerca del grande ordinatore, si arriva però ad una specie di feticismo, quando si tende a immaginare che questo sia incarnato in un uomo con tanto di nome e cognome, modello e specchio delle virtù che immaginiamo rappresenti. Oppure, in una specie di controdipendenza dei suoi contestatori, lo si immagina il pianificatore del male.

È in questo senso che il leader diventa magico. Guardando ai casi più famosi del passato, possiamo dire che l’uomo che più si presta ad assumere le sembianze del leader è quello senza qualità, come pare furono persino Robespierre e Hitler.

L’uomo che proprio per questo si plasma ai flussi delle nascenti ideologie del momento, che si abbandona al caso, senza pianificare la genesi del suo successo e tanto meno delle conseguenze che le future sue azioni determineranno.

Dai dipendenti dal leader emergono anche i contro dipendenti quelli che vogliono smontare il falso idolo dei gruppi altrui, o quelli che sentendosi dalla parte sbagliata della storia hanno bisogno di immaginare che dietro questo loro destino di vittime della disuguaglianza, reale o percepita che sia, ci siano i nuovi diavoli.

Allora è il disvelamento del piano diabolico a cui si appellano per confermare l’identità di vittima. Passano in rassegna la biografia e possibilmente il marcio tra le gesta dei personaggi che i media diffondono. Ma seguendo questa strada è facile immaginare che qualche scheletro nell’armadio lo si trovi sempre, perché tutti sono un po’ demoni e meno angeli di quello che i loro avatar inducono a credere.

Ma la scoperta di chi era veramente il bravo leader non ha confini. Possiamo smontare un po’, persino ad esempio, Ghandi che era un ossessivo pianificatore della propria immagine, aveva dichiarato che avrebbe sacrificato centinaia di migliaia di morti per raggiungere un obiettivo che non era quello tanto di liberarsi dagli inglesi ma di difendere la cultura indiana, dalla minaccia di quella occidentale e dei suoi diavoli: il treno, gli ospedali e gli avvocati.

E a sentir parlare la moglie di Ghandi, che confessò come per mantenere la povertà di Ghandi occorrevano molti soldi in tutto l’enorme entourage che si occupava di lui, il mahatma ebbe la generosità di informarla della castità assoluta che avrebbe seguito e obbligato tutti a seguire, a costo della stessa estinzione degli indiani.

Noi però, accanto ai leader o meglio il loro avatar in cui proiettare i nostri desideri, dobbiamo ricostruire narrazioni di supporto se vogliamo sostituire le storie sacre, a partire dalla Bibbia, che ci hanno accompagnato per secoli, prima della modernità.

Sono quelle stesse narrazioni storiche che vengano ricostruite postume o con il senno di poi, per sostenere ciò che si vuole credere. Cito un esempio emblematico, i cui effetti incidono ancora nella nostra contemporaneità e per me evocativo per l’effetto che ha nel ricostruirlo in modo un po’ diverso da quello che avevo sempre creduto: la Rivoluzione russa.

Avrebbe dovuto cambiare tutto con il grido: “proletari di tutto il mondo unitevi”, quando, in realtà. il proletariato non esisteva. La classe operaia nel 1917 in Russia era il 15% della forza lavoro e solo il 5% era iscritto al partito bolscevico. Aleksandr Sljapnikov una volta si congratulò con Lenin per essere l’avanguardia di una classe inesistente e fu poi eliminato.

E non fu neppure una rivoluzione, quella di ottobre, ma un colpo di stato. La rivoluzione di popolo fu quella di febbraio a San Pietroburgo, che prese alla sprovvista sia Lenin che Trotzki, mentre fu una piccolissima minoranza che mentre ferrovie, trasporti e negozi funzionavano prese il potere abbattendo il primo governo costituzionale. In silenzio.

La rivoluzione bolscevica senza proletariato aveva bisogno di essere rivitalizzata da quella che doveva scoppiare in Germania e quando fallì, non rimase che la strada del terrore, come disse Lenin: predisporre il terrore in segreto è necessario e urgente e, come disse poi persino Ghandi per i suoi progetti per l’India, anche lui aggiunse che avrebbe fatto milioni di morti pure di mantenere il controllo attraverso il terrore.

Così nacque la Ceka anche per evitare che si ripetesse quello che avevano fatto gli stessi bolscevichi un colpo di stato della minoranza. L’obiettivo non era quello di far credere alla gente un’ideologia, ma di abbruttirli moralmente. Nel 1937 i figli furono assunti per denunciare i genitori, le mogli, i mariti. La mattina eri la vittima e il pomeriggio potevi essere un delatore, il confine era labile, l’abbruttimento morale era perseguito e pienamente raggiunto, l’accusa di nemico del popolo significava deviare dalla linea di partito, che peraltro poteva cambiare continuamente.

La Rivoluzione russa spiega molto della storia russa ed è in perfetta continuità con le tradizioni più antiche, dall’eredità del sistema di potere centralizzato mongolo, alla nobiltà russa dipendente dal potere zarista (cioè Cesarista) fino al terrore e alla sottomissione zarista delle popolazioni che tentavano di raggiungere l’indipendenza come quelle dell’Ucraina. E poi la decisione sempre presa dall’alto per modernizzare il paese di abolire la servitù della gleba e la disuguale distribuzione delle terre tra i nobili e i servi.

Per qualcuno il terrore fu il fallimento della rivoluzione, ma per qualcun altro fu il colpo di genio. A seconda del punto di vista, a seconda del tipo di narrazione che si adotta e del leader che la rappresenta, ieri come oggi.

E continuano a esserci due mondi: quello delle religioni fondamentaliste, da una parte e dall’altra, quelle che cercano la fonte del senso nel letteralismo (la traduzione letterale delle Sacre scritture), oppure quelle identificate nelle ragioni di Stato che si avvalgono di segni e bandiere, e quello che parla di fratellanza universale, unica possibilità per dare contenuto alla forma di governo chiamata democrazia e per affrontare temi che non conoscono frontiere, tanto meno quelle sovraniste.

È un dialogo tra sordi non tanto perché ci siano interessi divergenti, ma perché divergenti sono le visioni del mondo differenti ed i modi di giustificare il senso della vita collettiva: da una parte la bandiera, il gruppo, dall’altra il cambiamento profondo di noi stessi e delle nostre relazioni. Eccitante per alcuni, pochi, inquietante per altri, la maggioranza.

E poi c’è anche quel primo modo di rispondere alla mancanza di un senso etico della vita, quello dello struzzo. Ed è quello prevalente nella modernità occidentale dove il manipolatore (leader) si maschera in ognuno di noi, nel demone che prende possesso della nostra cognizione, illudendoci di essere liberi, di scegliere il nostro destino, perché i nostri atti deliberativi sembrano scaturire da desideri che nascano da noi. Un potere senza volto, la macchina disumana e benevolente, le regole assunte a fonti di senso, che sono la cifra del razionalismo tecnico della modernità.

Del resto, le regole burocratiche rispondono ad una nostra esigenza interna di difesa, supporto all’identità, di conformismo e integrazione, mentre il successo è misurato dal raggiungimento di quello che sembra un obiettivo, ma è solo uno strumento per ottenere qualcos’altro, in una sequenza di falsi obiettivi che servono solo a potenziare la competenza adatta ad un mondo della convenienza tecnica.

Però ci sono i contro-dipendenti da quel sistema che ritornano a esternalizzare al di fuori nei diavoli che girano e formano i cosiddetti poteri forti, tanti lupi pronti ad abbracciarsi per dividersi in grande amicizia le povere pecore e diffondono il verbo tramite il mainstream ovviamente diretto e condotto dai soliti noti, diversi da noi, esseri senza anima. Lucratori, globalisti e soprattutto burocrati, pianificatori del male in quella stanza dei bottoni, per incatenare il mondo. Le vittime sono tali per caso e per un destino cieco e baro, mentre i carnefici lo hanno cercato. Forse.

Ma il cambiamento prevede il fallimento. Vivere fino in fondo il fallimento del progresso è necessario per continuare ad ampliare i diritti, il fallimento della religione e delle credenze assolute per aumentare tolleranza e introdurre fratellanza, il fallimento del “fine che giustifica i mezzi” è necessario per adottare l’etica del viandante quello per cui la strada si fa percorrendola e il fine è determinato dai mezzi. Il fallimento della politica, come convincimento, retorica e manipolazione sociale per potere fare diventare la politica un servizio, senza che questo sia parte di una retorica elettorale.

Questa ricerca di senso perduto di una vita che il senso non ce l’ha, come canta qualcuno, vede enormi moltitudini che stanno marciando verso un punto di biforcazione e di scontro. La pace tanto invocata da chi, non essendo sotto le bombe, non la vede solo come un evitamento della propria morte, è bellissima, ma temo che la polvere dell’odio non possa essere nascosta sotto il tappeto; venga fuori da tensioni terribilmente profonde, che non sono in mano solo ai burattinai, ma nei cuori dei burattini.

Forse bisogna riandare alle fonti originali e riscoprire, almeno nelle prediche qualcosa di nuovo. Un decreto imperiale del 380 d.c., posto in apertura del codice di Giustiniano così proclamava: “Nostro volere è che tutti i popoli … pratichino la religione che il divino apostolo Pietro trasmise ai romani … Comandiamo che le persone che seguono questa legge abbraccino il nome di cristiani cattolici. Quanto agli altri, che giudichiamo dementi e folli, essi porteranno l’infamia legata ai dogmi eretici … saranno puniti in primo luogo dalla vendetta divina, in secondo dalla punizione di nostra iniziativa, che dispenseremo secondo il giudizio divino”.

Papa Francesco, nel punto 8 dell’Enciclica fratelli tutti, oggi, dopo 1650 anni, proclama: “Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!”.

Come diceva Camus, prima della rivoluzione ci vuole la ribellione, il no, il sentirsi perduti. Si guarda alla bellezza del dopo, ma senza capire che per arrivarci, occorre fare un bagno di umiltà, di sconfitta e vivere la fine del mondo che abbiamo conosciuto. Comprendere il fallimento, accettarlo, porta a trovare la via del rinnovamento. Ma è la cosa più difficile da fare, perché vuol dire mettere in discussioni le acquisizioni fatte, i sogni di gloria, per finire ultimo tra gli ultimi. L’elogio del cambiamento comporta la celebrazione del fallimento.

 

 

(22 dicembre 2023)

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