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HomeL'EditorialeLa nostra confusione cognitiva nella tragedia del Medio Oriente

La nostra confusione cognitiva nella tragedia del Medio Oriente

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di Vanni Sgaravatti

Non sto parlando della confusione oggettiva, cioè quella della complessità tragica di una situazione che vede tanti valori, interessi, culture, soggetti e diverse varietà di immoralità. E non parlo tanto di una confusione dovuta ad una mancanza di conoscenza e di informazioni. Questo, mi dispiace deludere alcuni di voi, non è una riflessione geopolitica. Parlo della confusione nella profonda cognizione delle persone alla ricerca di giudizi, nella comprensibile tentazione di semplificare la narrazione, proprio per poter giudicare e di giudicare per rassicurarsi di avere un’opinione, un’idea sul mondo.

La valutazione delle cose, in particolare in situazioni estreme come queste, non è neutra, ma dipende dal punto di vista dell’osservatore, che a sua volta dipende dal ruolo dello stesso rispetto alla realtà osservata. Se noi fossimo soldati spareremmo per difenderci, attaccheremo per obbedire ad un ordine, se fossimo vittime cercheremmo di scappare dai carnefici, se poi avessimo per le mani quei carnefici che hanno ammazzato i nostri figli, non ci sarebbe altro spazio per la rabbia e, probabilmente, la vendetta. Da una parte e da un’altra. Se fossimo politici con obiettivi e priorità, agiremmo in relazione a questo ruolo.

Ad esempio, se sono un ministro israeliano e richiedono da me decisioni, non ho tempo per fare un’analisi storica delle colpe.

Non saprei neppure dove fermarmi nel risalire alle cause iniziali. La reazione e le modalità sono scelte sulla base della convenienza e dei principi personali. E’ compatibile la salvezza di Israele con la scelta di non rispondere in modo durissimo agli attacchi terroristici? Se fossi quel politico e non un altro immaginario ideale, avrei ereditato una politica di sicurezza di Israele, che nel bene e nel male ha sfruttato l’immagine di potenza inattaccabile per difendersi, nata probabilmente dal senso di colpa dei nonni di non aver reagito ai nazisti. Nonni che certo non immaginavano le conseguenze di questo, dopo 70 anni in una nazione molto lontana dallo stato di vittima di allora.

Se sono un capo di Hamas che ha come obiettivo e valore fondante creare uno stato indipendente islamico, che richiede la sparizione di Israele, che altro posso fare se mi rendo conto che posso raggiungere questo obiettivo se non unendo tutti gli arabi e che questa unione si può ottenere solo in risposta ad una aggressione genocidaria da parte di Israele? E che altro posso fare se tale aggressione può essere scatenata solo, se faccio qualcosa di orrendo e che turba profondamente le coscienze degli infedeli, mettendo allo stesso tempo il popolo palestinese con le spalle al muro? Per non parlare della competizione interna tra gruppi di terroristi islamici che vede prevalere chi produce più orrori. Ma noi che dai nostri salotti o dalle nostre piazze di protesta vogliamo dire la nostra o forse ancora prima avere un pensiero o trovare una ragione, per giudicare non abbiamo nessuno di questi ruoli.

Nei tempi contemporanei dei media, fatti di televisioni e di social, si sono moltiplicate le persone con il ruolo di osservatori, qualche volta voyeur. La solitudine delle masse occidentali comporta che moltissime persone passino il tempo a guardare dentro gli schermi e a cercare di rispondere alla noia esistenziale per ritrovare un senso e un collegamento con la realtà non virtuale. E proprio per questo, oggi, ci sono tantissimi osservatori, di una realtà mediata, che, per giunta, hanno una reazione condizionata dalla percezione e dai giudizi precostituiti di ognuno nei confronti del mezzo che veicola le notizie. E, quindi, quando pensiamo e diciamo la nostra, quale ruolo ci sentiamo addosso, quando osserviamo? Grandi giudici che cercano da un punto di vista morale le ragioni dell’uno o dell’altro? La terra l’hanno espropriata gli uni. No, l’hanno comprata, ne hanno fatto un territorio di valore e poi hanno proposto di dividersi in due parti e sono stati i palestinesi e gli arabi a rifiutarsi; no, hanno rifiutato perché si erano impossessati di una parte troppo grande; e così via. Ma siamo di fronte a tante contraddizioni: se diciamo che nessun orrore ha una giustificazione, perché poi cerchiamo di interpretare il ruolo del giudice alla ricerca di prove provate di chi è stato il vero e grande aggressore?

Chi trova una ragione, una giustificazione a monte, del gesto criminale e chi trova invece una coerenza di comportamento che identifica quel carnefice appartenente ad una cultura che produce mostri. Ed un mostro lo è per definizione, visto che chi agisce l’orrore, in quel momento è un mostro, nel senso di non umano? Perché facciamo fatica a sfuggire alla tentazione di voler sapere chi è la pecora e chi il lupo?

Per chi vuole continuare ad essere fedele alla propria storia di oppositori della politica israeliana, per fare un esempio di una parte, dobbiamo fare due operazioni moral-cognitive: la prima è non voler vedere dati e informazioni che, in particolare se crudi, possano turbare la linearità e la continuità delle nostre credenze e l’altra fare operazioni di distinzione: i veri cattivi sono i governanti, e le vittime sono tutte unite: palestinesi e israeliani. Certo le efferatezze che i terroristi hanno compiuto direttamente, cioè i singoli gesti di orrore, sono individualmente diversi da quelli necessari a spingere un bottone per lanciare un missile mirando ad un target e non vedendo le vittime innocenti (cosiddetti effetti collaterali), perché diversa è la determinazione necessaria per compiere i gesti assistendo in prima fila al dolore inflitto. Ma in quei gesti così determinati c’è una verità che salta fuori, anche se tendiamo solo ad ascriverle a situazioni omicidiarie. Mentre la pianificazione di Hamas è stato terrorismo, quelli dei singoli terroristi sono segni di un odio incolmabile, di cui si prende atto e che non ha bisogno di giustificazione. Tale odio ora si è sparso anche tra il popolo israeliano, annullando differenze tra sensibilità, principi etici e morali che un certo benessere aveva permesso di sviluppare in Israele. E, quindi, non c’è solo il governo di unità nazionale, ma c’è anche un odio unitario, di entrambi i popoli, uno contro l’altro ed è questo che fa da benzina quasi inesauribile agli interessi geopolitici esterni che ora, qualunque fossero, non sono facilmente governabili.

Quegli interessi, dalla Russia all’Iran (non cito Arabia e Usa solo perché gli interessi geopolitici, in questo specifico caso e certo non in passato, erano collegati alla pace in Medio Oriente) hanno acceso la miccia, ma non so quanto quei soggetti geopolitici sono poi in grado di governare il fuoco o non sarà, invece, il fuoco a governare loro stessi. E questo, al contrario di quello che pensano i complottisti del pensiero lineare, che vedono la direzione del complotto solo top down e non bottom up. Non è lineare, ma il sentimento dell’odio e la razionalità della pianificazione sono parte di un percorso molto circolare. Sono metamorfosi profonde quelle che ci investono in questi ultimi anni. Dal punto di vista intellettuale, potremmo cogliere queste tragedie per ripensare nuovamente a come si è invertita la logica macchiavellica: non sono i fini a giustificare i mezzi, ma sono la disponibilità dei mezzi a governare per nostro conto i fini. Mentre dal punto di vista del nostro bisogno di comfort queste tragedie possono farci capire che le nostre collettive comfort zone stanno svanendo: pensavamo di aver rinchiuso i mostri dietro la porta di qualche oscuro anfratto della nostra anima. Anche se: attenzione, stanno tentando di scardinare quella porta.

Ma, purtroppo ci sono volute ben 10 piaghe di Egitto: abbiamo una grande capacità di cambiare tutto per non cambiare nulla e assorbire tante metamorfosi, troppe.

 

 

(12 ottobre 2023)

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